UN SALUTO DA ROMA AL FESTIVAL PALABRA EN EL MUNDO!
Oggi 24 Maggio 2015 si conclude a VENEZIA il IX FESTIVAL PALABRA EN EL MUNDO.
IL PREMIO LE ROSSE PERGAMENE HA PARTECIPATO CON SLANCIO
A QUESTO EVENTO INTERNAZIONALE CON IL BLOG “IL PANE NECESSARIO”
(www.ilpanenecessario.com).
VOGLIO RIVOLGERE UN APPLAUSO AGLI ORGANIZZATORI DEL FESTIVAL, UN GRAZIE AI POETI CHE HANNO PARTECIPATO IN TUTTO IL MONDO,
UNA STRETTA DI MANO A GIOVANNA MULAS CHE CON GRANDE SENSIBILITA’ POETICA HA PORTATO AVANTI PER L’ITALIA L’IMPEGNO DEL FESTIVAL, AI POETI CHE HANNO PARTECIPATO AL BLOG.
IN ULTIMO UN BACIO ALLA MERAVIGLIOSA CITTA’ DI VENEZIA!!!
A VENEZIA DEDICO UN MIA POESIA COME ABBRACCIO POETICO!!!
CIAO!
ANNA MANNA CLEMENTI
Presidente del Premio Le rosse pergamene
La mia poesia dedicata a Venezia:
VENEZIA 2015
L’orrore infuria 
ci avvolge l’angoscia
evanescente allora
avanza una gondola strana
Un miraggio sull’acqua
uno splendore distante
un’estasi lontana
che solleva la schiena
Le guerre ci affannano
siamo persi
in un’atroce visione di misfatti
e gli occhi vagano
su quell’acqua antica
dai riflessi cangianti
che raccontano d’antichi palazzi
e docili
cerchiamo appigli al sorriso
un balsamo al dolore
una stretta di mano sul cuore
Se appena indugiamo
uno scorcio improvviso
il sospiro si ferma
resta come una fitta nel petto
ci avvolgiamo di niente
e quel niente ci sfama
soltanto se palpita
vive
respira
di vita diversa
La bellezza distende
un velo
di pace
un batter di ciglia
lunghissimo
come un lamento represso
un sogno disperso
Potessi ritrovare il profumo
avvinghiarmi al suo facile gioco
evadere ancora nel fuoco
di linee
fiabesche
geometrie della mente
senza sconti e scontrini
A Venezia, a Venezia, a Venezia
se potessi
la vorrei tra le mani!
LE PAROLE DELLE PERGAMENE
(Motivazioni, interventi, interviste, versi e tante altre cose dei vincitori, dei membri della giuria…insomma lo scrigno del Premio Le rosse pergamene …quelle cose che si conservano per affetto , per nostalgia, per rispetto, per memoria e che diventano l’humus fecondo per il futuro del Premio. I rotoli di pergamena che srotolandoli ci restituiscono il profumo di una vicinanza alla Casa meravigliosa della Poesia )
Tutti gli altri scritti di questo Link sono in ordine cronologico ma vorrei iniziare con la Motivazione di un premio senza indicare l’anno. Questa motivazione infatti non solo evidenzia il senso e le caratteristiche del Premio Le rosse pergamene ma anche e soprattutto perché è strettamente legato al BLOG per la Pace e al Festival LA PAROLA NEL MONDO : legato nei concetti, nelle finalità, nel linguaggio, nella visione della confidenza e della comprensione tra i simili ed i diversi. Nella forza dirompente della Poesia.
VORREI CHE QUESTA MOTIVAZIONE DIVENTASSE LA MOTIVAZIONE STESSA DEL NOSTRO PREMIO E IL SENSO DELLA NOSTRA PARTECIPAZIONE AL IX FESTIVAL INTERNAZIONALE PALABRA EN EL MUNDO.
MOTIVAZIONE per il Premio Le rosse pergamene
ALESSANDRO MINORE
“ARRIVERA’ UN’ALTRA LUNA “
Il silenzio, la parola, la testimonianza
di Anna Manna
Il silenzio è un nemico pericoloso.
Subdolamente demolisce ma ricostruisce anche.
E’ un verme silenzioso che ti si appiccica addosso e ti toglie aria e parola.
Dove pensi di restare fermo, la terra tremolante di silenzio ti sposta di
alcuni millimetri e dopo un po’ sei distante anni luce . Dalle tue cose più
care, dalle tue cose , quelle che ti somigliano.
E tu alla fine non somigli più a nessuna di quelle cose che pure ti avevano identificato.
Non è detto che sia un processo negativo.
Ma è un processo attivo il silenzio. Questo è il concetto che mi spaventa..
La scelta del silenzio. Pensate che sia indenne da sviluppi?
Vi sbagliate. Il silenzio parla e racconta tantissime cose.
Il silenzio ridefinisce i ruoli e li distanzia irrimediabilmente.!
“Qualcuno mi ha toccato!”
E’ stato detto. E quella lieve carezza, quella vicinanza di un attimo
sfuggente ha cambiato il corso della storia.
Basta poco a sconfiggere il silenzio, anche un gesto piccolissimo senza parole può sconfiggerlo.
Un gesto di poesia può essere il natale di una nuova vita.
Non importa chi sia quel qualcuno, importa soltanto che il dio abbia
sentito sfiorarsi l’anima.
Alessandro Minore non ha scelto il silenzio. Con il suo libro fatto di piccole emozioni ha scelto la parola. Una parola che racconta gli eventi quotidiani, la speranza di ogni giorno, ma da quel piccolissimo mondo fatto di cose dolci e minime scaturisce il canto del futuro.
Quel contatto lieve che riesce dolcemente a creare con il lettore lo solleva dal silenzio e lo porta in una dimensione nuova per lui e per chi lo legge.
Un libro di poesia è una scommessa innanzitutto con se stessi.
Alessandro ha scommesso sulla vis poetica della sua parola.
Ogni autore di poesia urla – o bisbiglia non importa- una verità. La sua verità , il suo dialogo con l’io profondo che lo identifica. Alessandro ci prende per mano e ci presenta i suoi amici, le sue certezze affettive, gli incontri, le cose di tutti i giorni in cui crede. Di cui gioisce. Ed ha piacere a raccontarlo al mondo . E’ un’operazione apparentemente semplice che nasconde una forza di comunicazione con il mondo che è una rara perla nel mondo idiota in cui viviamo. Non c’è autocelebrazione nella poesia di Alessandro Minore, né compiacimento, lui non si guarda allo specchio delle sue capacità, non si liscia il pelo dell’arroganza intellettuale che allontana invece di avvicinare gli esseri umani. Lui osserva e conserva il candore del significato primitivo e vero di quella terribilissima frase : fare poesia, essere poeta.
La parola nei suoi versi diventa dono, l’illustrazione meticolosa dei suoi palpiti diventa compassione nel senso antico della parola. Alessandro Minore desidera comunicare, il suo desiderio di parola vuole costruire amicizia, comprensione. Non si tarpa mai le ali , crede in se stesso e lo vuole dire, lo vuole annunciare. E non è forse l’annuncio di questa fiducia la vera bella novella da raccontare al mondo. Triviale e volgare nel quale ci immergiamo ogni giorno.
Come un tremolar di margherite o come il verde fresco dell’erba nuova i versi di Alessandro annunciano una primavera dell’anima. E ne abbiamo bisogno in questi fangosi inverni di una umanità allo sbaraglio.
Caro Alessandro, bravo. Ci regali e continuerai a regalarci il tuo sorriso che racconta a tanti giovani, persi dietro i falsi miti di una vita spericolata , la semplice adesione all’esistenza per quella che è , per quella che abbiamo sempre conosciuto.
Mi hai confidato che ci sono state alcune persone che hanno storto il naso. Lasciali perdere.
Sono così terribilmente soli nella loro pochezza umana e intellettuale. Vedi non hanno proprio capito che il tuo gesto poetico, la tua volontà di scrittura, la tua allegra vicinanza alla poesia , è proprio Poesia. Quella vera, quella che molti di loro, ammuffiti accademici della penna, non sono più capaci di capire. Come se l’arte fosse un dio malefico che allontana e critica invece di capire ed avvicinare. Ed invece cultura vuol dire proprio coltivazione. E tanti di loro restano nelle posizioni comode di chi critica e basta, senza mettersi mai in gioco e chiudendo un occhio verso le manifestazioni più triviali dei nostri giorni.
Alessandro tu, nella tua semplice adesione alla poesia, sei più intellettuale di tanti, più vero di molti.
Perchè la tua poesia è innanzitutto testimonianza , fede, speranza.
Continua a combattere con queste armi. Ai più sono sconosciute.
E a Parigi anche noi vorremmo scendere con te dalla torre, da qualunque torre che sappia farci sognare ed allontanarci dai problemi. Ma la compagnia alata della poesia per te non è stata una fuga nel mondo dei sogni e basta. Hai avuto la forza e la salda fiducia di scendere tra tutti noi, in mezzo agli altri. Eri sicuro che i pargoli erano lì , ai piedi di quella torre ad accoglierti. Sinite parvlos ….Ai poeti i bambini daranno sempre il benvenuto sulla terra. Li riconoscono simili a loro, sinceri, schietti. Con questa bellissima immagine che hai voluto riportare in quarta di copertina ci saluti ed auguri a tutti noi sia di trovare la torre capace di dare sollievo nelle difficoltà del mondo, sia di essere capaci di scendere dal sogno , di ritrovare la semplicità e la bellezza della vita di tutti giorni.
Alessandro il tuo libro ha scacciato il silenzio, la solitudine del silenzio, e rinnova il miracolo
della poesia che sempre è una dignitosa testimonianza di vitalità dell’anima.
Anna Manna
(Intervento di Corrado Calabrò al Centro di Documentazione Europea Altiero Spinelli – 10 ottobre 2014 Facoltà di Economia e Commercio – Sapienza, Università degli Studi di Roma) Foto SILVESTRI
CORRADO CALABRO’ 
Vincitore nel 2012 del decennale del Premio
Il nonnulla che fa la poesia
Sono nato sulla riva del mare; certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della nostra casa ai bordi della spiaggia.
L’estate era il mio ámbito di libertà. Seguivo con lo sguardo le navi che, lasciato lo Stretto di Messina, rimpicciolivano sempre più fino a venire inglobate nella distesa liquida. Il mare si apriva dinanzi a me col mistero, con la sorpresa di quello che avrei trovato spostando sempre più in là l’orizzonte.
Oggi il baricentro politico economico dell’Europa è collocato a Nord. Ma un tempo era collocato a Sud. Intorno al 1050 il regno di Sicilia (che comprendeva la Calabria e la Puglia) aveva un budget e una popolazione superiore a Paesi come la Germania o l’Inghilterra. Il core business del commercio era col Medio Oriente e con l’Africa e il mare di quei traffici era il Mediterraneo. Il “Mare di mezzo” non divide ma congiunge. Al tempo in cui i trasporti per terra erano così faticosi, il mare era una grande piattaforma da una sponda all’altra, una grande autostrada liquida sulla quale scorrevano i traffici e gli scambi culturali. Come osservava Paul Valery “La medesima nave, la medesima barchetta portavano le merci e gli déi, le idee e i metodi. Quante cose, per contagio o per irradiamento, si sono sviluppate sulle sponde del Mediterraneo! In questo modo si è costituito quel tesoro cui la nostra cultura deve quasi tutto, nelle sue origini: posso dire che il Mediterraneo è stato una vera e propria “macchina per fabbricare civiltà”. Ma tutto questo, creando affari, creava al tempo stesso, necessariamente, la libertà dello spirito”.
Lì, nella mia Calabria, nel mare di Riace che ho attraversato tante volte a nuoto, sono state ritrovate qualche decennio addietro le statue dei guerrieri di bronzo. Si tratta di due statue risalenti al V secolo a.C., tra le più belle pervenuteci dall’antichità e in assoluto le più belle statue di bronzo oggi esistenti. Sono rimaste per secoli adagiate sul fondo sabbioso sotto pochi metri d’acqua, dopo un naufragio della nave che li trasportava, e sono emerse ai nostri giorni come se l’antico scultore le avesse scolpite per noi. Le stavano trasportando dalla Grecia alla Magna Grecia o viceversa? L’interazione culturale tra la Grecia e Reggio e Locri era all’epoca così intensa che non c’è dato distinguere la provenienza dalla destinazione.
Il Mediterraneo non è il non-luogo dell’utopia, ma un topos storico-sociale geo-politico, fondato su un comune atteggiamento spirituale. “Méditerranéiser la pensée” significa recuperare la grande spinta culturale che ha fecondato le nazioni fiorite sulle rive del “mare di mezzo” e riproporla come nuova spinta evolutiva dei nostri popoli all’insegna della ricerca, della formazione, dell’innovazione tecnologica, dell’affermazione dei valori di convivenza pacifica, della interrelazione tra aree culturali diverse, pur nel riconoscimento della specificità delle diverse culture.
Perché parlo del mare volendo parlare si poesia? Perché c’è similitudine. Dice un antico proverbio marinaro dei tempi in cui parte del pianeta era ancora da scoprire: Quando sei in mare non seguire nessuna delle rotte tracciate; al massimo potresti arrivare dove è arrivato qualcun altro. Anche la poesia sposta più in là l’orizzonte. Il poeta ha l’illusione di creare il mondo con le sue parole. Un’illusione, certo, ma sotto sotto ci sono processi mentali di indisconoscibile validità. “Sulla parola” – scrisse Goethe – “si reggono gli archi dell’esistenza”. Non è solo un’espressione letteraria. I neurobiologi hanno riscontrato che la nostra mente ha una natura linguistica e che il nostro pensiero dipende dal linguaggio, il quale addirittura conforma la struttura del nostro cervello. Il che significa che siamo noi stessi, con le parole che facciamo nostre, a sviluppare la capacità di comprendere. In altri termini, che facciamo entrare il mondo dentro di noi!
Viviamo in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms, whatsapp, e-mail, in televisione. Telefonini, radio, televisione, computers hanno determinato un nuovo rapporto tra noi e il “mondo”. La logorrea orale e scritta scorre e scorre come un fiume lutulento. Tutto sembra essere stato detto in questo profluvio di parole che ci sommerge. Tutto, tranne quello che attendevamo: l’insoddisfazione viene saturata aumentandone la dose.
Paradossalmente, in tanta sovrabbondanza, il bisogno della poesia, della scrittura poetica, nasce dall’insufficienza del linguaggio. Quando sentiamo il bisogno di dire qualcosa di nostro, di nuovo, di non detto, ci accorgiamo che ci mancano le parole. La poesia è un po’ la scommessa sull’impossibile: dire qualcosa di non detto, forse d’indicibile, usando le parole, vale a dire il mezzo più usato, più abusato, più sciupato dall’uso quotidiano.
Ma, così stando le cose, cosa ci spinge allora alla scommessa così spesso perdente, al tentativo assoluto e fallimentare della poesia? Cosa ci spinge ad innamorarci? Se la nostra individualità ci bastasse non ci innamoreremmo. Se la vita ci bastasse non si farebbe poesia. La vita vissuta è conformazione. In amore, come nella poesia, a spingerci è il bisogno della parte mancante al senso-non senso della nostra vita.
Qualcuno, scimmiottando Nietzsche, ha detto che la poesia è morta. Può darsi. Ma è più probabile che, a furia di voler essere alternativi, i nostri movimenti poetici si siano rivelati alternativi alla poesia. E’ vero: La fiducia nella parola rivelatrice è scossa irreparabilmente. Così per le idee, per la verità trascendente come per l’intuizione estetica. E tuttavia noi avvertiamo l’esigenza di stabilire un contatto con qualcosa che vada al di là del ripetitivo e del convenzionale, avvertiamo sotto sotto che il fluire del quotidiano ottunde la conoscenza della realtà vera delle cose; una realtà destinata a restare in sé irrivelata, ma che in certi momenti, in certe circostanze, dà dei segni criptici della sua presenza.
La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Un trasalimento dell’ anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere. La poesia asporta la cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi. La poesia è una navigazione, ma dentro di noi, dentro la nostra anima, dentro la nostra capacità d’intendere. E la nostra coscienza non è meno grande del mondo. Sì, a volte -in un momento felice che ha del magico- un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione, tanto da diventare un’immagine, una percezione, un’intuizione sovradeterminata: un orizzonte di significato è stato superato.
E’ questo, questo nonnulla che fa la poesia.
Poesia tratta dal libro vincitore nel 2013
TIZIANA GRASSI
Da “Anatomie degli Invisibili – Precari nel lavoro, precari nella vita”, Nemapress, Alghero, 2012
IN TERRA STRANIERA
Non voglio risposte dai sondaggi
sulle opinioni di bagnanti distesi al sole.
Non voglio epifanie improbabili
e la mistica dei buoni sentimenti.
Un salto quantico
etico
empatico.
Quello mi aspetto
quando la Storia passa di qui.
Agli incroci delle nostre strade
mentre a noi tocca in sorte
una mutazione
che vale
un’epoca.
Con donne e uomini scuri accanto
occhi luminosi
un italiano spezzettato tra i denti
incerti e fiduciosi in terra straniera.
E non bastano due film e qualche libro per farsene un’idea.
Confini che abbiamo imposto,
noi incapaci di essere dimore adottive.
Noi che ignoriamo i ponti
di chi mette in costellazione
punti del reale
tracciando un senso.
Intervista di Anna Manna a
DANTE MAFFIA
OMAGGIO ALLA CARRIERA dell’edizione speciale 2o13 dedicata alle Periferie del mondo
IL Poeta tra LE MACERIE DEL MONDO
Io non sono capace di intervistare Dante Maffia! La verità è questa! È inutile mentirsi ad oltranza. Non ne sono capace. Ho provato mille volte, l’avvio giusto, le domande indovinate, l’equilibro assicurato!
L’equilibrio? Ma si può cercare un poeta vero e restare in equilibrio?
È proprio questo che succede quando m’imbatto nei suoi versi. Traballo, perdo l’equilibrio, incomincio a sentirmi timida. E Dante è un amico, dovrei sentirmi tranquilla e sicura a parlare con lui.
Amico da tanti anni, amico di altri amici. Eppure perdo l’equilibrio. Non sono capace di studiarlo, di analizzarlo, di porgere domande davanti ai suoi versi.
Come un pittore incapace di fermare il mare in movimento, come un flautista che non riesce ad incantare il serpente.
Lui, il poeta, spennella un po’di rosa ciclamino (una delle sue immagini più riuscite) e rende il mondo più fresco!
Ecco Dante io ti invidio, invidio la tua arte così naturale in te, così immediata.
È inutile tentare di somigliarti, è inutile tentare di catturare i tuoi meravigliosi congiuntivi. Allora voglio provare ad intervistarti con questa invidia che mi rende fragile e questo ammaliamento per la tua poesia che mi stupisce. Un lupo del verso! Abilissimo, scattante e fiero.
C’è una fierezza arcana, atavica nelle emozioni di Dante. Una dignità di profondità e di silenzi rappresi, quando racconta di storie finite, di vite trascorse e poi d’improvviso s’accende di nuovo il respiro del mondo in un’immagine vivificante, fresca come i suoi ciclamini appena sbocciati.
Hai scritto un libro indimenticabile La Biblioteca d’Alessandria, questo poeta della Biblioteca d’Alessandria che sanguina perché vede lo sfacelo dei libri, della cultura è completamente sincero. È questo il segreto, Dante, della tua poesia: la sincerità totale?
Credo che la sincerità totale dovrebbe essere il dato certo di tutta la poesia, altrimenti si può fare soltanto della letteratura, magari raffinata e suggestiva, ma priva di quel lievito umano, sociale, storico, lirico che serve a rinnovare le fibre del mondo. Non basta la sincerità, ovviamente, per scrivere versi che restino, che sappiano diventare misura e certezza dell’uomo, ci vuole una totale complicità con l’argomento trattato, una sensibilità fuori dal comune e una cultura che sappia fondere a fuoco lento le accensioni, le vertigini che colgono il poeta quando “scopre” la dimensione nascosta della realtà, le sue incognite e i suoi misteri. Chi crede che la poesia sia un referto anonimo, la cronaca di un qualcosa, può produrre soltanto aridi documenti, ma non scintille capaci di rendere eterni i momenti offerti.
Dante, la poesia è un momento estremo? Riflette la sintesi dell’imbuto che scardina gli equilibri di sempre? È il terremoto devastante di un’anima?
La poesia è, insieme, tutte queste cose di cui tu parli, e molte altre. Mi sono divertito a trascrivere su un quadernetto centinaia di definizioni di poesia e centinaia di componimenti dei maggiori poeti di tutto il mondo e di tutte le epoche.
Un mare immenso di affermazioni straordinarie che illuminano il senso di un lavoro così apparentemente inutile.
Molte delle definizioni sembrano essere risposte date ad altre, sono in contraddizione, si elidono, si negano. Eppure io non mi sono sentito, non mi sento di prendere una posizione, mi sembrano tutte vere, tutte esatte, tutte convincenti. Non so quindi se la poesia sia un momento estremo, so che è un momento irripetibile (in questo senso sicuramente estremo), che scardina gli equilibri perché non accetta il compiuto, il codificato, l’abitudinario, non è capace di vivere nella reiterazione, nel tautologico. Di conseguenza è anche terremoto che devasta l’anima, che la rende ineffabile e inquieta. Ma devastazione, inquietudine, ineffabilità devono trovare la strada per arrivare al lettore, altrimenti è puro esercizio di stile, cornice ben fatta ma vuota e incapace di mutare la sostanza interiore di chi legge, incapace di essere contundente, di mettere scomodi, di far sentire la nudità del proprio essere.
La distruzione di qualsiasi mondo, la devastazione che porta l’evento naturale apre le porte soltanto alla poesia del dolore? Il collasso di qualsiasi equilibrio è sempre e soltanto morte? Cosa possiamo ricostruire dopo la caduta?
La caduta è quotidiana, comunque la si intenda, e dunque è una necessità che comporta la resurrezione, la ripresa, il progetto del rinnovamento. Naturalmente ci sono molti tipi di cadute, si veda, per esempio, quella di cui discute Camus.
Ma non voglio divagare, perché è una delle domande fondamentali che da sempre si trascinano sulla poesia. Nasce dal dolore? Sempre? Si nutre di dolore? E poi c’è soltanto la morte? Si sono occupati di questo problema in molti, io conosco
le risposte di Attila Joseph, di Pasternak, di Maldelstam, di Marina Cvetaeva, di Calogero, di Leopardi, di Luzi, di Gatto, di Valery, di Borges… sembrano atti giustificativi.
In realtà quando un certo sentimento trabocca, l’impeto espressivo si coagula in un grido. La gioia… invece passa e se ne va. Si pensi alle poesie d’amore. E difficile trovarne di allegre, eppure si tratta del sentimento che non ha l’eguale. I poeti, tutti, hanno la perennità del dolore e sullo sfondo la morte. Ne parlano, ci si crogiolano, ci fornicano, ma se si legge con estrema attenzione ci si rende conto che invece si tratta di inni alla vita, di parole-gesti che vogliono fermare l’inesorabile scorrere del tempo. Ecco l’altro elemento sempre in agguato e sempre subdolo. Ci sono versi di Leopardi che danno sussulti e cariche emotive efficaci e tutte imperniate sulla pienezza del piacere, dell’esultanza, della gaiezza.
“Primavera brilla nell’aria e per li campi esulta…”, basterebbe questa citazione a ribaltare il discorso. Ma bisogna ribaltarlo? Io, quando sono triste o malinconico, leggo Pascoli o Foscolo: mi portano in alcune radure che immediatamente mi fanno sentire pieno, eterno, e quindi lontano dal dolore e dalla morte. E poi, il dolore e la morte di cui parlano i poeti sono momenti di catarsi…
Chi sono stati i tuoi maestri? La vita stessa ti ha offerto di fare poesia: è stato il dolore, la gioia e la tristezza della vita che ti hanno spinto a cercare l’antidoto?
Nessun antidoto. Il dolore, la gioia, la tristezza, si sono fusi con l’amore, i viaggi, le letture, gli incontri, il paesaggio, le polemiche, i confronti, gli studi “pazzi e disperati”, le occasioni varie della vita. Io ne ho fatto un serbatoio di sensazioni, di emozioni, di pensieri, di progetti. Un continuo fermento che mi ha visto e mi vede spettatore, con infinite macerazioni da cui attendo il segnale. Di maestri ne ho avuto molti, ma li ho messi sempre in discussione, per crescere, per non adagiarmi nelle certezze. Diceva Goethe, e poi Proust ne ha fatto un vanto, che ad ogni approdo, ad ogni raggiungimento, rimetteva tutto in discussione e ricominciava daccapo. Così faccio io, niente mi soddisfa fino al punto da rinunciare alle curiosità, ad andare oltre, ad indagare a raggiera immergendomi nelle cose fino a soffocare per uscirne nuovo e pronto alle successive battaglie.
Viviamo purtroppo un perido di catastrofi : terremoti, naufragi, tempeste.
Dopo restano le macerie. Ne vediamo talmente tante, giorno dopo giorno. Le macerie della vita di tutti. Le macerie della nostra vita. Cosa ci spinge a raccontare la parte negativa della nostra vita. Un bisogno di sfogo, una parentela con il dolore di tutti, la volontà sotterranea di esorcizzarlo?
Vedi, ogni cosa contiene il suo doppio, il suo rispecchiamento, l’alter ego, il contrario. Le macerie sono un dato della vita, purtroppo, e raccontandole non facciamo altro che esorcizzarle, capirle meglio per evitarne le brutte conseguenze in seguito, per averne la consistenza in modo da valutarne l’impatto volta per volta. Quando raccontiamo di disgrazie non è soltanto perché vogliamo la compiacenza dei lettori che si sentono coinvolti dal patetico, ma anche per sondare la profondità delle sventure umane. Però, visto che le disgrazie presuppongono anche la felicità, tutto poi si svolge per il meglio. Il fatto è che l’atto supremo del vivere è la morte, ci piaccia o no, e quindi tutto ciò che in qualche modo ci avvicina ad essa è una maniera di allontanarla. Naturalmente è soltanto un aspetto del raccontare, poi c’è quello della necessità di farlo e di farlo con la logica che da sé assume il comando della narrazione. Anche poetica.
Quanto contano i contenuti nell’opera di un poeta? Insomma la poesia è una questione di forma oppure il messaggio stesso è capace di fare poesia? Le opere di teatro di Eduardo De Filippo sono poesia?
Questione mai risolta, ma affrontata da tutti i teorici dell’arte e della poesia. De Sanctis ne ha parlato da par suo, poi Croce, per restare all’Italia, ma il problema è stato affrontato dai filosofi in tutte le sue sfaccettature. Per ultimo si legga Heidegger. Per esemplificare dico che un puro esercizio di forma tale resta, così come un contenuto che non bada alla forma tale resta, non diventa poesia. La poesia si realizza quando l’uno e l’altra trovano la perfetta simbiosi, suffragata da quella magia che dà scatto alla parola e illumina il contenuto portandolo in un’aura di rivelazione. Di per sé una storia non è poesia, il come viene raccontata è importante.
Ma più importante ancora è verificare se ciò ch’è stato detto sia venuto da una necessità imperiosa o semplicemente da un’abitudine a scrivere. Insomma, la faccenda è complicata: vai a scindere forma da contenuto nella Commedia o nei Sepolcri.
Le opere di Eduardo De Filippo sono poesia? In senso generico sì, ma in senso specifico no. Per me la poesia è una determinata cosa, con una sua storia e un suo modo di esistere, che nel tempo ha subìto variazioni e mutamenti, ma che deve restare sempre legata a tracce del proprio essere, magari dilaniate e offese, ma pur sempre presenti. Le opere di Eduardo sono teatro, ma non teatro di poesia. Ovviamente la mia affermazione nulla toglie alla bellezza di pagine memorabili. Bisognerebbe evitare di utilizzare poesia ogni volta che si prova un piacere qualsiasi. Quello della poesia è un coinvolgimento totale che presuppone un’apertura e una educazione e non soltanto l’adesione epidermica. Il teatro di Pirandello è poesia? Pirandello ha anche scritto libri di versi e ha dimostrato di avere scarse qualità. Dunque?
La poesia è nostalgia? È lo sguardo alla sponda che si allontana dei viaggiatori portoghesi e della loro languida saudade? O è anche la speranza? “Impareremo a cavalcare i cocci” ho scritto in una mia poesia, il progetto può esprimere un habitat poetico? Quale è il tempo del poetare? E tra le macerie, soprattutto, quale tempo dobbiamo tentare per tentare di nuovo la vita?
Anche. Ma nostalgia di che cosa? Del tempo perduto? Dell’isola non trovata, delle città sognate, di quelle invisibili?
Del se stesso che arriva da un tempo senza tempo? Il duende di Lorca ci può illuminare, come ci può illuminare la saudade di Pessoa, ma si tratta sempre di verità parziali. E nel parziale entra anche la speranza. Certo, se impareremo a cavalcare i cocci molte cose cambieranno nel mondo e il progetto si farà da sé e si realizzerà perché saremo entrati in contatto con l’eternità. Invece siamo ancora alla fase del rompere i vasi e di dire indifferenti di pagare perché i cocci sono di chi ha combinato il guaio. Dunque perché non invertiamola domanda? Un habitat poetico può esprimere un progetto? Perché il tempo per poetare è perenne, non deve avere soste, non deve distrarsi. La parola del poeta deve saper essere ogni volta ciò che accade nel mondo per trarne il lievito giusto affinché si tramuti in tessuto sociale. C’è una domanda che mi pongo sempre ed è: “Senza il patrimonio dei nostri poeti maggiori e minori la nostra vita oggi sarebbe com’è?”. Io ne dubito. Perciò bisogna cercare il tempo dell’illibatezza, il tempo – c’è in ognuno di noi – in cui le cose sapevano essere suoni e sillabe e i suoni e le sillabe sapevano essere cose. La vita così non s’allontanerà e anzi cercherà di offrirsi nella sua pienezza. La vita non bisogna “sciuparla nel gioco consueto degli incontri e degli inviti / fino a farne una stucchevole estranea”, come dice Kavafis,
altrimenti i cocci non si cavalcano, le macerie non si cancellano.
Mai come in questo momento storico, la cultura ferita sembra urlare e chiedere voce nelle città intasate di tutto ma deserte di anima. Nel parco illusorio delle vanità lo sguardo del poeta vero striscia e sguscia dove meno te lo aspetti. Forse fiorirà nei vicoli più sconosciuti, forse la voce del poeta all’improvviso urlerà tra le macerie di tutte le città devastate dalle meschinità di tutti i giorni. Forse come l’ululato di un lupo mannaro – è il titolo di un tuo interessante romanzo – si rivolgerà ancora alla luna per cercare quell’altrove poetico che dopo tanti secoli i poeti ancora cercano come il Santo Graal?
Ciò che è accaduto in Abruzzo, per esempio, mi ha molto ferito. Non potrò mai dimenticare certe scene di strazio, lo sfacelo che trionfa. Tuttavia dico che il poeta per fortuna non aspetta le intemperie e le catastrofi per urlare la sua indignazione, per svegliare le coscienze nella loro profondità. Il poeta non aspetta le “occasioni” per svelarci il mondo, per portarci nelle strade del deserto o della consapevolezza. Chi alzasse la sua voce soltanto in occasioni terribili come quella dell’Aquila, non potrebbe che essere un cantastorie stonato e repellente, interessato alla cronaca che subito passa e si sperpera. Nel cuore del poeta ci sono molti terremoti, proprio perché la sua è una lotta contro la mediocrità e la sciacallaggine che non aspetta gli tsunami per diventare repellente. Il poeta non cerca il Santo Graal, lo possiede. Piuttosto lo deve difendere dagli stupidi e dai creduloni superficiali, dal becero mercimonio che ne hanno fatto politici e mercanti di chiacchiere.
Per il poeta la parola amore ha un significato diverso da quello che gli attribuiscono gli altri, anche la parola pane ne ha uno diverso, perché per lui la poesia non è un sostantivo, ma un aggettivo consapevole e meraviglioso.
intervento al Premio
GIORGIO VILLA
Premio Le rosse pergamene 2013 per la Poesia sociale
Nell’immenso intrico di vasi comunicanti che è la nostra mente
non esiste un centro che abbia le caratteristiche da noi
tradizionalmente attribuite all’Io.
Da ogni parola si può arrivare a una serie pressocché infinita
di ricordi, associazioni, riferimenti ed amplificazioni. Partendo
da una singola parola, col tempo, giungeremo a tutte le parole
conosciute del vocabolario.
Mi viene in mente il signor Ettore, un anziano quasi ottantenne
che era costretto su una sedia a rotelle presso il padiglione
32 del Santa Maria della Pietà di Roma, nell’epoca—si era
nell’autunno del 1978—in cui l’Ospedale Psichiatrico si stava
aprendo in forza della approvazione della legge 180.
Ettore trascorreva molte ore a consultare un dizionario. Sceglieva
con cura una parola, leggeva il trafiletto che la riguardava
e poi per decine di minuti se la pronunciava fra sé e sé, come se
la assaporasse fino in fondo. Naturalmente Ettore godeva del
rispetto di tutti ed era famoso quasi come Eolo, detto “il Principe”,
un ricoverato sui 60 anni che aveva una spiccata tendenza
per la “speculazione filosofica pratica”.
Eolo, ad esempio, mi diceva:
Molte persone vengono qui in Manicomio non per curare o per
curarsi, ma come se facessero delle prove. Cercano di valutare quella
che è la loro aféresi e per dimostrare, ai propri stessi occhi, di essere
buoni e caritatevoli, dato che pensano di avere una aféresi molto
superiore a qualsiasi malato o a quella di tutti quanti messa insieme.
Ma nel fare ciò dimenticano — con un tipico peccato di superbia —
il “Sistema della Marca”. Come tutti sanno le Marche sono in Italia
ed è facile per noi accostarci ad un sistema nostrano. Chi ignora il
“Sistema della Marca” non sa valutare le 10, le 20 e le 50 lire e così
non sa neppure risalire, faccio per dire, alle 100.000 o alle 500.000.
D’altra parte il lavoro è faticoso e, alla lunga ogni lavoro porta noia e
desiderio di morire per cui dobbiamo lottare tutti quanti contro la
tentazione di suicidarsi. Per questo occorre conoscere e praticare, per
se stessi, il “Sistema della Marca” che consiste nel segnare, “marcare”
appunto, anche i più semplici oggetti e, quindi, i più semplici gesti.
Tutti sanno, in reparto, che io ogni mattina faccio, verso le 10,
una macchinetta da tre tazze di caffe Lavazza e che lo distribuisco,
senza invidia né gelosia, in sei mezze tazze a sei persone diverse.
Certe volte ne scappa una mezza tazza per me, altre no, ma pazienza!
Fa parte delle regole del gioco. Come si dice qui a Roma: “A chi
tocca non si ingrugni”.
Ma così io “marco” la mezza tazzina di caffe come faccio con
le tre sigarette che fumo ogni giorno dopo averle accuratamente
divise per metà. Anche qui io “marco” la mezza sigaretta sia che la
fumi io o che la dia da fumare ad un ospite e così risalgo dalle 10 lire
al milione e, soprattutto, evito di suicidarmi.
L’esperienza di Ettore e i discorsi di Eolo mi sono tornati in
mente mentre stavo scrivendo queste modeste note
e il suo privilegiato rapporto con la poesia.
Mentre scrivevo mi tornavano alla mente la voce, roca e
bassissima di Ettore e quella assertiva e argomentativa di Eolo.
Da molti anni i miei due amici, che mi fecero conoscere aspetti
straordinari del Manicomio, non sono più in vita, ma la loro
voce mi accompagna costantemente con l’unicità della parola
pronunciata, con la capacità di ogni parola di annidare in sé
l’infinito.
Negli anni straordinari della chiusura del manicomio ebbi
la ventura di animare, con alcuni colleghi, la pubblicazione di
un giornale significativamente intitolato Le Voci che si pubblicava,
dapprima in forma ciclostilata e, dal 7° numero, a stampa,
presso l’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
Molti contributi ci venivano portati spontaneamente dai
ricoverati anche se la loro forma non era fra le più splendide.
Talora erano fogli di carta ricavati da documenti ufficiali, talaltra
carta da pacco accartocciata con poesie scritte a pennarello o a
matita.
Eolo, detto “il Principe”, compì una vera e propria performance
artistica tracciando per tutti i vialetti dell’Ospedale Psichiatrico
i punti nei quali un servizio urbano di autobus avrebbe
dovuto effettuare delle soste. In quest’opera fu coadiuvato da
Riccetto, un paziente sordomuto nato in Manicomio. Il tutto
fu, poi, riportato su una mappa meravigliosa e stravagante che
occupava un grande foglio di carta marroncina.
Ci perdevamo seguendo le trame variopinte di quella mappa
e i simboli che la costellavano e pensammo che si trattava di
uno splendido esempio di poesia visiva.
Il poeta, con la sua arte, ha la capacità di evocare l’infinito e
di sopportare l’infinito latente in ogni atomo di pensiero e di
mescolarlo col finito.
In definitiva l’arte del poeta è quella di sapersi fermare, l’arte
della misura e, quindi, l’arte di mescolare finito ad infinito.
L’esperienza metaforica ci porta a creare nuove sfere di
significato che investono il campo della competenza linguistica.
Ogni parola è, potenzialmente, un insieme di infiniti rimandi
e significati, un continuo andirivieni fra centro e periferia.
La poesia stana l’infinito celato in ogni parola e lo porta
in superficie. Per questo è svincolata dalle leggi dell’essere il
linguaggio sospeso fra sustentività e performatività (Austin). La
poesia è, in fondo, un “linguaggio altro” superiore e diverso dal
linguaggio della legge, della narrazione e dei proverbi.
Naturalmente vi sono rapporti fra la creatività poetica ed
inconscio, ma questo è solo un aspetto della questione perché
la sintesi delle immagini, il loro potere evocativo e l’eternità
del verso hanno a che fare con la musicalità, l’accentazione, la
lunghezza delle vocali e la ricorrenza misteriosa delle labiali,
dentali e palatali.
Il poeta non è uno sciamano, un evocatore di infiniti universi
transreali è, invece, un misuratore di silenzi, come il musicista.
Tirannia e adulazione assediano la poesia, fatto umano per
eccellenza. Siamo circondati dall’Ombra, dal negativo dell’e
sistenza e dal mistero, ma siamo anche ospiti dell’infinito e
la poesia ci insegna a resistere e a non temere questa nostra
condizione.
Vorrei concludere con una mia recente poesia che all’Ombra
si ispira e che accompagna l’esperienza umanissima dell’appannarsi
della vitalità, dell’eclisse che tutti prima o poi sperimentiamo
come quando i pianeti (chiamati Graha) influenzano,
indifferentemente, le stesse divinità maggiori del ricco mondo
divino rappresentato fra le popolazioni che abitano nelle valli e
sui rilievi dell’Himalaya.
Eclisse
Quando la luce del sole è ferita 
e il cane guaisce terrorizzato
sentiamo le scaglie dello stupore
coprire il corpo d’un velo denso.
Nel profilo riconosco amica
di tante battaglie e amori
di gioie, pene e delusioni
te ombra dimenticata e sola.
Ritorna la luce con sollievo
e noi sorridiamo confortati
ma dentro l’anima c’è una faglia
d’un altro mondo, d’un altro tempo.
(L’intervento è pubblicato in : Anna Manna Clementi, Il gatto di Schroedinger, Aracne, Roma, 2014)
Edizione speciale Le rosse pergamene febbraio 2012
Intervento in occasione della sua premiazione
NERIA DE GIOVANNI
IL PERCORSO DELLA CULTURA E’ PERCORSO VERSO LA PACE
L’A.I.C.L., Association Internazionale des Critiques Litteraires,
affiliata all’UNESCO dal ’71, è nata da un’idea sorta durante
un Convegno svoltosi a Parma già nel 1963 in cui intellettuali
di tutta Europa avevano manifestato l’urgenza di istituire un
luogo associativo che contribuisse ad un concreto confronto
tra Culture.
Eravamo ancora sotto l’influenza nefasta della cosiddetta
“guerra fredda” e gli scrittori e gli intellettuali dell’allora Europa
dell’Est avevano molta difficoltà ad incontrarsi con il resto
del mondo, Pertanto una delle priorità dell’AICL fu quella di
proporre nel Bureau Internazionale sempre almeno un rappresentate
dell’est europeo. Così abbiamo avuto vicepresidenti
polacchi, romeni, ungheresi, sovietici.
Attualmente il Bureau è così costituito: alla presidenza ci
sono io, primo italiano e prima donna a ricoprire l’incarico che
invece è sempre stato di un francese. Vicepresidenti il prof. Fernando
Martinho dell’Università di Lisbona e il prof. Ichiro Saito
dell’Università di Tokio, il segretario generale, per rispetto alla
regola su menzionata, è il prof. Stefan Damian della Università
di Cluj in Romania. Tesoriere, esterno all’Associazione per
motivi di opportunità, è il dott. Massimo Milza, giornalista e
dirigente della presidenza del Consiglio dei Ministri italiano.
Oltre alla possibilità di dare luogo a scambi che travalichino
ideologie e problematiche geopolitiche, la nostra Associazione
ha un’altra peculiarità fin dalla sua origine. Essa infatti, a
differenza di altri raggruppamenti professionali che includono
soltanto alcune ristrette cerchie di categorie (esempio gli
italianisti, gli storici, gli slavisti, ecc.) sempre seguendo la prospettiva
del confronto aperto, ha accolto al suo interno, come
membri, critici accademici, ma pure critici militanti su testate
giornalistiche e/o radio televisive, scrittori e poeti che esercitino
nel contempo anche l’attività critica. Questo modo di
“reclutamento” ha arricchito sempre più la nostra Associazione,
rendendo molto fluido e fertile il dibattito culturale al suo
interno. D’altronde già uno dei “padri” fondativi dell’AICL,
l’italiano Gaetano Salvati, a lungo vicepresidente dell’AICL, era
un grande poeta, discepolo ed amico di Salvatore Quasimodo,
e nel contempo un finissimo critico letterario, il primo ad
avere proposto una Antologia di poesia femminile prima del
sessantotto.
L’AICL si è posta come finalità il rafforzamento dei legami
tra le culture, in particolare nel campo della critica letteraria, e
la promozione dello sviluppo culturale nel mondo contemporaneo,
moltiplicando gli scambi tra le letterature attraverso le
traduzioni. La nostra Associazione è convinta che il libro sia il
maggiore strumento di diffusione della cultura. La sua difesa è
uno dei compiti più importanti del nostro tempo.
È nata già come espressione di legami internazionali europei
ed extraeuropei e per raggiungere meglio gli scopi associativi
organizza congressi e colloqui ogni anno in un Paese differente.
Vorrei ricordare a titolo di esempio gli incontri a Parigi,
ovviamente,ma anche a Lione (Francia), Lisbona (Portogallo),
Nuoro, Varsavia (Polonia), Bratislava (Rep. Ceca), Cuba, Nantes
(Francia), Barcellona (Spagna), Stavanger (Norvegia), Turun
(Polonia), Padova, Gela, Piatra Neampt (Romania) Lecce. Nel
2012 il nostro convegno annuale si è svolto a Morra De Santis
patrocinato dal Comitato per le celebrazioni per il
centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia
della Presidenza del
Consiglio dei Ministri.
Attualmente l’AICL. conta adesioni individuali di diversi
Paesi: l’Italia (presente in numerose Regioni: Liguria, Lazio,
Sardegna, Sicilia, Puglia, Calabria, Veneto, Campania), poi Francia,
Spagna, Grecia, Polonia, Romania, Venezuela, Giappone,
USA, Malta, Austria, Egitto, Svizzera.
Le lingue ufficiali sono il francese e l’inglese ma dal 2002,
anno della mia prima elezione a Presidente, anche l’italiano è
accolto come lingua ufficiale di cultura insieme allo spagnolo,
secondo lingua più parlata al mondo. Insomma, ho voluto dare
un segnale di maggior elasticità e permettere a chiunque di
esprimersi nella propria lingua, con l’ausilio di traduzioni o
simultanee o in consecutiva.
Si è pubblicato per numerosi anni una Rivista semestrale,
L’Année Littéraire, ed attualmente ci si è dotati di un sito web,
http://www.aicl.org. Numerosi Atti dei Convegni hanno visto prestigiose
pubblicazioni, soprattutto presso la collana Saggi delle
Edizioni Nemapress.
L’AICL da qualche anno di avvale della collaborazione dell’Associazione
di promozione sociale SALPARE soprattutto per
le questioni logistico–organizzative e della FLIP–Free Lance
International Press, come Ufficio stampa internazionale.
Insomma, pur con la crisi generalizzata del mondo associativo
senza scopi di lucro, l’AICL continua a registrare domande
di critici e scrittori di diverse nazioni che chiedono di entrare
nell’AICL apprezzando il nostro lavoro di confronto culturale.
Ovviamente si sottopone per la valutazione il proprio curriculum
al Bureau internazionale.
Personalmente penso che sarebbe molto importante per
l’AICL un riconoscimento ufficiale presso la Comunità Europea
anche se la nostra internazionalizzazione va oltre l’UE
comprendendo anche Nazioni extraeuropee, come l’Egitto, gli
USA, il Venezuela, il Giappone.
Noi del Bureau internazionale lavoreremo per poter organizzare
almeno un seminario conoscitivo presso le strutture
di Bruxelles svolgendo così uno dei nostri compiti, quello del
reciproco confronto, proprio “a casa” della istituzione europea
che ha permesso il più lungo periodo di pace all’Europa che la
storia contemporanea ricordi.
Intervista di Anna Manna a
LUCIANO LUISI 
Presidente di giuria nelle edizioni al Caffé Greco
Si è parlato molto della religiosità nella poesia di Luciano Luisi, critici di fama hanno puntualizzato, analizzato, scandagliato ogni verso per cercarvi l’immagine di Dio. Ma vorrei seguire un percorso diverso: vorrei giungere all’immagine del poeta Luciano Luisi, con le braccia alzate verso il divino, analizzando questo interessantissimo poeta nelle sue espressioni più umane e nelle sue caratteristiche meno divine.
La voce di Luciano, è noto, è stata la voce della TV colta. Di lui, dunque, si conosce benissimo lo charme, la capacità di intrattenimento, la facilità della battuta intellettuale.
Ma conoscere veramente un poeta significa dimenticarne l’immagine pubblica e cercarlo negli episodi meno noti, negli aspetti più segreti, nell’intimo scorrere dei giorni normali. Io lo conosco sin da bambina, quando mio padre mi portava nella favola del Ninfeo di Papa Giulio per assistere al Premio Strega. Che veramente mi stregava. Ma allora tutti gli scrittori mi sembravano cigni irraggiungibili, ed io mi sentivo un anatroccolo incapace di esprimersi. Dunque ammirata e silenziosa li guardavo parlare. Li guardavo, perché mi piaceva il movimento delle loro labbra, non capivo fino in fondo i loro concetti, ma ammiravo la loro voglia e la loro capacità di esprimersi. In questi ultimi anni Luciano è diventato per tutti noi soprattutto un poeta e da amico poeta mi ha svelato il suo scrigno segreto.
Lo scrigno di Luciano Luisi è un incredibile, meraviglioso, sgabuzzino che Luciano possiede nel palazzo dove abita. Avete letto bene: uno sgabuzzino fiabesco, uno scrigno di bellezza e di cultura. In questo piccolo ambiente al piano terra Luciano ha sviluppato un vero e proprio museo di conchiglie, una raccolta di inusitata bellezza dove il tempo dimentica di esistere e lascia il posto alla dimensione dell’immutabile. Luciano tra le sue conchiglie è felice. E questa sua felice adesione alla bellezza immutabile ed eterna ne svela l’aspetto, secondo me, più sorprendente. La sua pacatezza, la sua poesia così calma, così fluida, poggia su questo sacro sguardo sulla bellezza nella sua eterna espressione. Luciano è consapevole delle lacrimae rerum, conosce perfettamente il defluire impietoso del tempo, ma la sua mano carezzevole e caritatevole raccoglie le bellezze e le conserva. Questo è il messaggio più bello dei suoi versi.
Questa volontà di recuperare, nelle identità sue e degli altri, i doni preziosi del mondo conservarli e restituirli al mondo con la pazienza e la precisione di un certosino. La sua propensione al collezionismo, la sua raccolta meravigliosa di conchiglie provenienti dai posti più lontani, sembra ritrovare la voce del mare attraverso i percorsi più strani e difficili. Ma alla fine ritrova sempre e soltanto il mare. Ecco, io Luciano lo vedo così. Questa è la sua religiosità innegabile. Questa volontà di aiuto verso la natura, il mondo che soffre, che muore, che è destinato a scomparire. Questa volontà di conservarne le impronte. Le impronte della sofferenza perché le lacrimae delle cose sono d’innegabile bellezza.
Così le sue poesie d’amore narrano l’amore degli adulti, quello che poggia su ricordi e comprensioni, difficoltà e incomprensioni. Una carezza per asciugare il sudore delle difficoltà e conservarne il ricordo che avviluppa, lega gli amanti più di qualunque giorno felice. La fotografia dello stato d’animo, il dipanarsi di stagioni del cuore e della psiche. L’amore che dura sempre. L’amore per il mondo, per l’essere umano nella sua realtà di tutti giorni, per il dialogo continuato e continuo con se stesso e con l’altro. Il rispetto e la sacralità che genera una tale visione del mondo sicuramente porta il poeta ad esprimere una religiosità diffusa in tutti i versi.
Anna Manna: Luciano questa tua compartecipazione e compassione con il creato è per te come una preghiera?
Luciano Luisi: È stato detto, e credo giustamente, che la poesia è sempre d’amore. D’amore perché esprime una volontà di comunicazione, di dialogo, di rapporto con l’altro da sé, cioè il lettore per il quale scrive. (È falso che un poeta scriva per se stesso: senza lettori la sua fatica non avrebbe senso. E non avrebbe senso –diceva Giorgio Caproni– la Divina Commedia se Dante l’avesse scritta in un atollo, con una lingua illeggibile. Anche se questa verità contrasta con l’altra e cioè che il poeta non può fare a meno di scrivere se ne è “necessitato” dalla sua vocazione). È stato anche detto che la poesia è sempre una forma di preghiera. Lo si può capire pensando che la poesia è come una sonda che penetra (o aspira a penetrare) nella profondità sconosciuta dell’animo umano (e il poeta lo fa cercando in sé stesso –solo vero strumento conoscitivo di cui dispone– la propria verità per capire quella degli altri), là dove la razionalità naufraga nel mistero della vita. È proprio questo mistero che io leggo nella natura che amo, e in lei vedo riflessa l’immagine di Dio. Per questo una poesia che parla del mare o della campagna, degli uccelli o dei fiori, che volge lo sguardo verso l’infinito inconoscibile dell’universo, ha sempre un afflato –anche se inconsapevole– di spiritualità.
Cosa cerchi nel contatto con il lettore dei tuoi versi? L’ammirazione, la comprensione, una risposta?
La parola ammirazione mi fa sorridere, correlandosi a vanità. La poesia non è un abito alla moda in una vetrina. E neppure la “comprensione” mi trova d’accordo. Comprensione di che cosa: del testo, dello stato d’animo che lo ha suscitato? Non è il lettore che deve venire al poeta, ma il poeta che deve andare al lettore, nel senso di “diventare lui”, farsi suo strumento. Cito ancora Caproni che diceva questa verità che credo incontestabile: “Chi legge un poeta vero legge se stesso”. Ciò significa che il lettore deve trovare espressi dal poeta i sentimenti che sono anche suoi, le sensazioni che lui stesso prova. Il poeta mette a disposizione le parole che lui ha il privilegio di governare per esprimere ciò che sente il lettore. Mi sovviene anche il Carducci che diceva del poeta “pianse ed amò per tutti”. Quindi, tornando alla tua domanda, la parola che sceglierei per il rapporto fra il poeta e il lettore è “consonanza”.
Sei considerato il poeta dell’amore. Nei tuoi versi l’amore è compartecipazione, amore di una vita vissuta insieme, cioè comprensione dell’altro. Spiegami la differenza tra l’innamoramento e l’amore.
Ha scritto Michele Dell’Aquila: “Mi sembra che Luisi sia, più di quanto non sembri volere, poeta d’amore. Forse ha ragione, se non altro per la più preponderante presenza di questa d’amore in confronto di altre tematiche, almeno fino ad una certa stagione. Generalmente le poesie d’amore “raccontano” le due fasi estreme della vicenda amorosa, l’innamoramento e la fine dell’amore (più questa che l’altro), i due momenti in cui, nel segno della felicità (folgorante come un fulmine che brucia e sparisce), o in quello dell’infelicità, I sentimenti sono vissuti nella loro massima tensione. Anni fa tradussi poesie d’amore di tutte le letterature organizzandole come le fasi della luna: dalla luna nascente (l’innamoramento, appunto) alla luna cinerea (il rimpianto, la memoria). Ebbene le ultime sezioni erano le più gremite. Segno evidente che l’amore lo si rivive sopra tutto quando il ricordo si fa doloroso. Ma questo vale per ogni sentimento. Nella poesia sono molto più presenti l’infelicità e la malinconia, che la gioia. Spesso nell’innamoramento (e rispondo così alla tua specifica domanda) vi è la cecità della passione che può diventare compiutamente amore soltanto quando sia avvolta dalla tenerezza che non si esaurisce ma anzi cresce col tempo.
Che cosa è la nostalgia? Che colore le daresti? Ma mentre ti faccio questa domanda, sento subito spingere nel mio cuore un nuovo interrogativo. La nostalgia è uno stato d’animo o un gesto? Se tu, poeta, ti trovassi in mezzo al mare, nell’ora che volge al disio e ai naviganti… ecc. ti placherebbe il suono dei tuoi versi nostalgici oppure ti tufferesti nel mare per tornare indietro verso quella spiaggia che ancora ti chiama?
Non so a quale nostalgia ti riferisci. Se è quella per un luogo, per una persona amata, per una felice stagione passata, questa è comune a tutti gli uomini. Credo invece che il poeta possa soffrire di una particolare nostalgia che definirei metafisica. La nostalgia di ciò che è inconoscibile, dell’irraggiungibile, dell’inespresso. È una sorta di struggimento che assomiglia a quello che accompagna la creazione di una poesia che è sempre una strada verso l’orizzonte, dove il poeta intravede la perfezione della forma, nella sofferenza della consapevolezza che l’orizzonte non si raggiunge mai. Da ciò deriva l’insoddisfazione che turba ogni artista, non risparmiando, come sappiamo, neppure i sommi.
L’emozione dell’amore serve a tenere lontano l’angoscia, la paura, il mistero, oppure è un mistero che ci cattura? Secondo te usiamo l’amore oppure l’amore ci usa a suo piacimento, senza alcun senso e senza alcun fine, nel suo immutato ed eterno bendare le sue vittime?
L’amore (ma qui sarebbe forse più giusto dire il sesso) dà all’uomo una provvisoria illusione di immortalità. Anche l’amore, inteso come pienezza di sentimenti, fascia con la sua nirvanesca atmosfera la mente degli uomini e fa scolorire le angosce, le paure, talvolta persino il semplice senso della realtà. È ciò che tu definisci “bendare le sue vittime” facendoci dunque tutti indifesi di fronte a quel dio che scaglia le sue frecce: in realtà siamo noi che inventiamo l’amore, nel senso che molto spesso l’oggetto d’amore è un’invenzione di cui talvolta non ci rendiamo conto. Di chi ha sentito l’imperiosa necessità di costruirsi attorno quelle mura che lo isolano dalla banalità della vita. Forse la Silvia del Leopardi non è mai esistita, se non nel suo supremo bisogno di crearla.
Di che cosa hai più paura? E come riesci a fronteggiare la tua paura? Quali pensi siano le paure dell’uomo del terzo millennio?
La paura ci accompagna fin dall’inizio del tempo: i nostri progenitori avevano paura di tutti i fenomeni naturali perché non riuscivano a capirli, e anche noi abbiamo ereditato quel senso di insicurezza che ci dà ciò che non riusciamo a comprendere, anzi di più: noi abbiamo razionalizzato la consapevolezza che tutto attorno a noi è mistero, anche contro il parere di chi crede che tutto sia spiegabile. Quando l’uomo andò sulla luna, in una di quelle inchieste che si fanno in certe occasioni, fu chiesto anche a me cosa avessi provato. Contrariamente allo spirito trionfalistico che animava le altre risposte, io dissi che da lassù gli astronauti avranno constatato con sgomento, che non avevano scalfito neppure un tassello del mistero dell’universo che, ripeto, da lassù, doveva essere apparso davvero incommensurabilmente infinito. Io mi considero pauroso, lo dico senza pudore: Ho paura dei cani, soffro di claustrofobia e gli ascensori mi angosciano, ma mi sono trovato talvolta in circostanze, sopra tutto durante la guerra, in cui ho visto uomini considerati coraggiosissimi, impallidire o fuggire, e io invece mi buttavo dove c’era più pericolo; la spiegazione è la mia curiosità, una curiosità che non si ferma davanti a niente e che è la molla vincente della mia vita. Se poi tu pensi alla comune generale paura della morte, io ti dico che da credente, insieme alla disperazione così umana, così insita nella nostra stessa carne, e in chi come me ama così intensamente la vita, c’è una grande curiosità (ecco la mia curiosità che torna) per come sarà quel mondo eterno che ci attende. Mi chiedi quale sia la paura dell’uomo del terzo millennio? È quella che vedi, che vediamo ogni giorno: l’insicurezza, l’insicurezza economica del domani (è ancora e sempre il mistero), l’insicurezza della nostra stessa vita per quella violenza che è diventata la regola anche nel comportamento delle nazioni che vi ricorrono uccidendo il valore della ragione e del dialogo.
Ritieni che l’ignoranza sia uno scudo all’angoscia oppure un precipizio per soccombere prima?
L’ignoranza è inconsapevolezza. L’ignorante è come un bambino e quindi ha meno paura perché non sa immaginare o vedere i pericoli. Ma non c’è da augurarsi che sia questo uno scudo all’angoscia.
Dimmi una frase che ti somiglia. Anzi un verso!
Per rispondere a questa tua curiosa, domanda, ho cominciato a sfogliare un libro e mi è venutosotto gli occhi questo verso: “I giorni, i mesi, e sempre quirimango”: Anche se nel testo aveva un altro significato (è inuna poesia d’amore), può voler dire, e in questo senso forse mi “somiglia”, che anche se è passato il tempo (e ne è passato tanto!) io sono sempre lo stesso con i miei slanci, i miei sogni, i miei desideri: immutabile.
Qual è il tuo libro che ami di più?
Io ho pubblicato già due volte, l’antologia di tutte le mie poesie: dopo venticinque anni di lavoro, nel 1967 in “Un pugno di tempo” (nella “Grande Fenice”, di Guanda), dopo quaranta, nel 1986 in “La sapienza del cuore” (Rusconi editore) e spero di farlo ancora con un’opera definitiva. Ciò vuol dire che io credo che un poeta scriva sempre un libro solo. Di volta in volta la raccolta che pubblico “racconta” l’uomo che sono in quel momento, quell’uomo che, come tutti, cambia, si evolve. Solo il libro che rappresenterà tutta la vita compiuta dirà davvero l’uomo che, con tutte le sue contraddizioni, sono stato. Contraddizioni che le mie poesie, talvolta, drammaticamente rivelano.
Le emozioni sono sempre le stesse, cambia il modo di esprimerle, questa frase del Prof. Antonelli mi colpì molto in un’affollata Aula Magna dell’Università La Sapienza. L’arte dunque è questa ricerca di espressione, questo navigare verso una nuova spiaggia delle parole. Oggi come si esprime l’amore?
È vero ciò che hai sentito affermare dal prof. Antonelli: che le “emozioni sono sempre le stesse e cambia il modo di esprimerle”, che è come dire che l’uomo, in ogni tempo, è sempre lo stesso (contrariamente a chi vorrebbe giustificare certe “innovazioni” estetiche, giustificandole con l’assurda affermazione che l’uomo del duemila è diverso da quello dei secoli passati. Diverso soltanto nel suo involucro esteriore, cioè nell’aspetto sociale, non nella sua realtà profonda che si racchiude nelle stesse insolute domande). E l’arte (nel nostro caso specifico, la poesia), è –come tu dici con bella immagine– un navigare verso una nuova spiaggia di parole, o diciamo, forse più giustamente, e –come ho già detto– verso l’orizzonte irraggiungibile della forma perfet-ta.
Ma l’amore è soltanto un’emozione? Quali infiniti e sottili legacci fatati unisce due persone fino a quel momento del tutto estranee? È soltanto una reazione chimica, oppure un improvviso trovarsi nell’infinito gioco del mondo?
Sono infinite le emozioni che possiamo ricevere dalla vita, che ce ne fanno assaporare il gusto, ma è indubbio che l’amore sia la fonte delle più intense, quelle per cui vale la pena di vivere. Ma oltre questo non saprei dirti. Nessuno è riuscito a capire quale sia il mistero per cui fra miliardi di individui due si incontrino e si riconoscono così affini da poter vivere insieme per sempre.
Qual è il poeta che senti a te più vicino tra i poeti grandi del passato e tra quelli contemporanei viventi?
I poeti che sento più vicini sono i grandi spagnoli, Lorca, Machado, Jimenez, che considero i massimi del Novecento. E ancora Apollinaire e Kavafis. Poeti ai quali ho dedicato maggiore spazio in “Luna d’amore”, la già citata mia raccolta di traduzioni di duecento poeti di tutte le letterature. Come avrai notato, per risponderti, non cito volutamente gli italiani che amo.
Oltre che come poeta sei molto apprezzato per la tua attività di critico a tutto campo. Parlami di questa tua doppia attività.
Ogni poeta è un critico: prima di tutto di se stesso. E Eliot diceva che il miglior critico di poesia è il poeta. E naturalmente anch’io ho scritto molte recensioni, dei saggi e ho curato monografie (da Luzi a Prisco, da Sciascia a Pratolini). Parallelamente mi sono sempre occupato di critica d’arte con così numerosi titoli da farmi assegnare a tempo indeterminato una cattedra di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Foggia: una carriera che, pur esaltante, ho interrotto perché non riuscivo a conciliarla con gli impegni culturali e televisivi. Ma l’amore per l’arte è nato in me fin dagli anni del dopoguerra quando a Roma i giovani poeti vivevano accanto ai pittori loro coetanei, e che si chiamavano Vespignani, Buratti, Muccini, Attardi, Caruso, che fin dalle prime prove, prevalentemente grafiche, mostrarono il loro grande talento che poi ne ha fatto degli indiscussi maestri di quella generazione. E proprio muovendo da quei ricordi, ho recentemente pubblicato, con le edizioni Rai-Eri, un libro, “Piazza del Popolo” dove attraverso trentacinque profili di artisti, si rivive il clima di irripetibile fervore creativo di quel periodo in cui Roma fu al centro della ripresa culturale dopo la tragedia della guerra.
Nella società tecnologica la poesia soccomberà?
La poesia non “soccomberà” mai. Finché l’uomo avrà sentimenti ed emozioni, conoscerà l’amore e il dolore, la disperazione e la speranza, e si porrà le stesse domande sul proprio destino creaturale, la poesia non morirà. Io ho avuto una esperienza che mi ha toccato profondamente e mi ha dato la certezza della necessità della poesia. Facevo parte della giuria di un premio per dilettanti, che un uomo di grande intuito psicologico e sociale aveva istituito nell’ambito dell’Associazione dei pensionati del commercio “Cinquanta e più”: un premio, diciamo pure, che si rivolgeva a persone che, forse, fino alla quasi improponibile provocazione del concorso, non avevano mai sentito parlare di poesia. Ebbene durante una affollatissima riunione (partecipavano ogni anno sei-settecento concorrenti) una signora anziana si alzò tenendo, alto in mano, un foglio. Disse, con grande naturalezza: “Mio marito mi ha lasciata, la mia unica figlia di diciotto anni è morta in un incidente. Se io non avessi questa poesia mi sarei suicidata”. Ci fu un lungo silenzio, poi scoppiò un applauso. Ed eravamo in molti con le lacrime agli occhi.
LA POESIA CHE DETTE ORIGINE AL PREMIO LE ROSSE PERGAMENE MOLTI ANNI OR SONO!!!
IL CASTELLO DEL CUORE
(Rosse Pergamene)
Ruvida quella carta
tra le dita
si sciolse nelle pieghe
dell’anima
in morbidi sorrisi d’intesa
Tra le righe delle pergamene
gli spazi vuoti impararono a vibrare
d’attese e di silenzi
arrossendo ad ogni battito
di ciglia
Diffidenti dei giorni e dei gesti
ci arroccammo
sui castelli del cuore
chiudendo le porte
ai sussurri dell’amore
Quel sentimento imprevisto, intravisto
si smorzò nella voce dei secoli
divenne polvere
senza il sapore delle stelle
ma nelle solitudini dei sogni
ingigantì
e ci trovammo in una dimensione “altra”
forse nevrosi
forse consapevolezza di una stagione che finiva
Ci strinsero con lacci preziosi
come fossimo vecchie pergamene ingiallite
da conservare per ricordo
e oltrepassammo le date
i giorni
e tutti i certificati della vita
Rosse spiagge di desiderio
e di attese
ci indurimmo come ruvida carta
impastata dal sale di sapori condensati
un grumo nel petto
che sembrava esplodere
ad ogni passo
Senza arrenderci alla storia
nostra
personalissima e banale
diventammo preda della Storia
evolvendo in leggenda
A caratteri d’oro ci ritrovammo
scritti
su tutte le frasi d’amore
del mondo
Eravamo simili all’amore
fuori da noi stessi
e per sempre noi
in ogni rigo
in ogni verso
in ogni poesia d’amore
Anna Manna
Anna Manna chi è?
Anna Manna, nativa di Gaeta, figlia d’arte dello scrittore Gennaro Manna e Rosalba Trovarelli. Sposata Clementi. Poetessa, scrittrice, saggista, cultural promoter. Ha scritto molti libri di poesie, un romanzo, due libri di racconti, antologie, due saggi. Socio dell’Associazione italiana del libro, dell’Associazione internazionale dei Critici Letterari, del Sindacato Libero Scrittori italiani. È nota la sua attività culturale nella capitale italiana dove ha fondato in Campidoglio e condotto per dieci anni il Premio “Fiore di roccia” dedicato alla donna. Alla problematica femminile ha dedicato l’antologia Poestesse per Pechino (Ila Palma 1995) e Donne di luna e di scure — poesie nel web (Il Convivio 2007), scritto con Daniela Fabrizi.
Fondatrice e organizzatrice del premio “Le rosse pergamene” premio di poesia d’amore e solidarietà ha dedicato la sezione della primavera 2013 a Papa Francesco ed alle poesie delle “Periferie del cuore”. “Le rosse pergamene” ha premiato i più bei nomi della poesia italiana e ha lanciato giovani sconosciuti. Il premio è nato nel 2001 dall’omonimo libro di poesie d’amore prefato da Elio Fiore e presentato al Caffè Strega a via Veneto ed al Caffè Greco in via Condotti.
Pluripremiata anche a livello istituzionale con la medaglia d’oro della Commissione Pari opportunità, medaglia d’argento della Commissione cultura della Camera dei Deputati per l’antologia su Papa Giovanni Paolo II e riconoscimenti della Presidenza del Consiglio dei ministri per la sua attività culturale. Tra i premi ricevuti si ricordano : il “Premio Teramo” per un racconto inedito; il “Premio Sinite Parvulos” in Vaticano per l’Antologia Poesie per Karol, curata insieme al figlio Alessandro Clementi; “Premio Calliope”, Benevento, Saitta, Polimnia, Alghero Donna Poesia 2011; “Premio Casa mia” della Regione Lazio 2011. Il romanzo A largo della polveriera è stato presentato, primo libro di una donna, al Parlamento europeo a Roma, durante il Convegno “Donne e cultura”.
I suoi versi sono stati musicati a Recanati presso il Centro mondiale della Poesia, a l’Aquila sono stati scelti per la Mostra Corrispondenze patrocinata dall’Unesco, a Spoleto è stata inserita nel Programma culturale multidisciplinare “Il senso del senso”, a Catania è nota per la collaborazione con la rivista Il Convivio. I racconti pubblicati su 100news sono diventati il libro Una città, un racconto edito da Nemapress che ha dato origine al Premio “Italiamia”che si svolge come sezione del Premio Europa e cultura presso il Centro europeo SPINELLI nella Facoltà di Economia e commercio di Sapienza Università degli studi di Roma, dove per molti anni è stata bibliotecaria.
Ha presentato progetti culturali all’Università La Sapienza, dove ha lavorato come bibliotecaria, alla Biblioteca della Camera dei Deputati, all’Archivio di Spoleto. I suoi libri sono stati presentati dai più noti critici in sedi prestigiose come l’Università Sapienza (Poetesse per Pechino nel 1995 presso la Facoltà di Economia e commercio), Università Roma Tre ( Il saggio Il poeta della ferriera scritto con Mauro Cavallini e Giorgio Carpaneto, vincitore del Premio internazionale di saggistica Città di Marino), il Caffè Greco, Il caffè Strega a Roma, a Firenze, a Milano, ed altre città italiane. Le sue poesie sono state tradotte in romeno.
Si sono occupati della produzione letteraria di Anna Manna con presentazione dei suoi libri,commenti critici e recensioni : Fiorenza Alderighi, Carmelo Aliberti,Giorgio Barberi–Squarotti, Antonio Bruni, Marianna Bucchich, Lia Bronzi, Stefania Camilleri, Franco Campegiani, Corrado Calabrò, Niccolò Carosi,Giorgio Carpaneto, Iole Chessa Olivares, Miranda Clementoni Luisa Chiumenti, Francesca Di Castro, Neria De Giovanni, Vittoriano Esposito, Daniela Fabrizi, Dante Fasciolo, Elio Fiore, Anna Maria Giancarli, Fausta Genziana Le Piane, Tiziana Grassi, Sandro Gross–Pietro, Romano Levante, Luciano Luisi, Don Mauro Mantovani, Franco Manescalchi, Anna Masala, Mila Marinii, Ruggero Marino, Manuela Marchi, Mario Mazzantini, Gilberto Mazzoleni, Mauro Milesi, Renato Minore, Walter Montini, Francesca Pansa, Aldo Onorati, Elio Pecora, Fortunato Pasqualino, Nino Piccione, Luciano Pizzicone, Chiara Rocco, Luigi Ruggeri, Don Santino Spartà, Raimondo Venturiello, Anna Vinci, Loretta Zanobbi Alabiso. Le recensioni sono state pubblicate su: “Il Messaggero”, “Il Tempo”, «30giorni», «Il convivio», «Vernice», «Voce romana», «Il La», «Realtà del Mezzogiorno», “Radio Vaticana”.
Nel luglio 2013 ha pubblicato con Nemapress Umili parole e grandi sogni — 5 poesie per 3 pontefici con introduzione di Neria De Giovanni, presidente dell’Associazione internazionale dei Critici Letterari. A luglio del 2011 a Spoleto ha lanciato il Manifesto dei Neoromantici che nel febbraio del 2013 si è strutturato nel Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo a firma Anna Manna, Daniela Fabrizi e Gilberto Mazzoleni. Durante il convegno “Europa e cultura verso un nuovo umanesimo” del 31 genniao 2014 ha lanciato ed organizzato la prima edizione del Premio “Europa e cultura” presso la Sala delle Bandiere dell’Ufficio italiano a Roma del Parlamento europeo.
Premio Scrivere Donna 2014 a Pescara. Ha avviato presso la Biblioteca della Camera dei Deputati il Progetto “I contemporanei in biblioteca “, approvato dalla Facoltà di Lettere, con il suo saggio sul poeta Corrado Calabrò “L’Illimite” edito da Aracne, con relazioni di Neria De Giovanni, Gerado Bianco e Roberto Nicolai Preside della Facoltà di Lettere.
A Casa Menotti a Spoleto nel luglio 2014 è stato presentato il suo saggio “Il gatto di Schroedinger sonnecchia in Europa. Europa e cultura verso un Nuovo Umanesimo”dalla Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici letterari Neria De Giovanni, dal giornalista Elia Fiorillo e dalla scrittrice e saggista Luisa Gorlani.
Casa Menotti luglio 2014 Presentazione del saggio
LA SCELTA DEI POETI E DELL’IMPOSTAZIONE DEL BLOG E’ DI ANNA MANNA CLEMENTI
TUTTA LA PARTE TECNICA E’ DI ALESSANDRO CLEMENTI
IL TITOLO DEL BLOG E’ DI ANNA MANNA E DANIELA FABRIZI